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Tommasi AIC: una trappola chiamata vincolo sportivo

Continua la battaglia del Presidente dell' Associazione Calciatori che non molla la presa sulle regole del vincolo dilettanti. A sentirlo non sembra troppo strano quello che dice. E se avesse ragione?

Da Repubblica.it - ROMA - Vincolati, incatenati alle loro società, per anni, a volte di fatto per sempre. In Italia non si è liberi di giocare al calcio. E molti ragazzi, arrivati a un certo punto della loro carriera calcistica, sono costretti ad abbandonare lo sport che amano. Tutta colpa del vincolo sportivo. Così mentre in Spagna esplode lo scandalo per le modalità di acquisto di atleti under 18, in Italia c'è chi è deciso a dare battaglia una volta per tutte contro la catena che lega un ragazzino a una società per anni. Le norme federali sono semplici. I ragazzi che giocano a calcio fra gli 8 e i 16 anni sono inseriti nella categoria Giovani e sono vincolati alla propria squadra di stagione in stagione. Ma a 14 anni, a seconda della categoria della società di appartenenza si aprono due strade diverse. I ragazzi tesserati per squadre della Lega Dilettanti diventano Giovani dilettanti e possono essere sottoposti a vincolo con quella società, un legame che si scioglie solo al compimento del 25° anno di età. I tesserati di società professionistiche diventano Giovani di serie e il loro vincolo va dai 14 ai 18 anni (con possibilità per la società di prolungarlo per un anno). Se per i professi onisti il limite è la maggiore età, per chi gioca nelle serie minori cambiare squadra è di fatto impossibile o quasi. Le norme federali in materia sono un labirinto di commi, con paletti insormontabili per chi prova a staccarsi da una società. Prendiamo per esempio il caso in cui la famiglia di un giovane calciatore si trasferisca altrove. Il ragazzo potrà chiedere di cambiare squadra solo se il trasferimento è in un’altra regione e, addirittura, in una provincia che non sia contigua a quella di partenza. Non solo: bisogna che si trasferisca l’intero nucleo familiare. 

Ne ha fatto le spese Pasquale Mauriello.  L’ormai ex calciatore, classe ‘90, voleva andare a giocare altrove, ma la sua società gli ha negato il cartellino: “A quel punto ho cercato di capire quali strade potevo intraprendere per liberarmi, ma ho presto scoperto che non ce ne sono. Ero determinato e quindi sono arrivato in tribunale, ma il mio ricorso è stato respinto. Non è stato fatto nulla di illegale, è la norma in sé a essere sbagliata. Solo noi e Grecia abbiamo una legislazione del genere, è assurdo”. Mauriello ha dovuto rinunciare a fare il calciatore, ma continua a combattere la sua battaglia lavorando per l’Associazione italiana calciatori (Aic) come responsabile regionale nel Lazio. “Ogni giorno riceviamo chiamate da parte di genitori che non sanno come comportarsi. Per fare informazione sto girando gli spogliatoi e trovo sempre ragazzi coinvolti in un percorso simile al mio, quando invece a 18 anni dovrebbero essere liberi di poter scegliere dove giocare. Il risultato è che i giovani si allontanano dallo sport e questo significa aver fallito. Non si può sottovalutare il ruolo sociale del calcio”. 

La battaglia di Tommasi 
La guerra contro il vincolo sportivo è uno dei punti cardine della gestione di Damiano Tommasi, ex centrocampista della Roma e della Nazionale, attuale presidente dell’Aic, che lo scorso ottobre ha lanciato una campagna per l’abolizione del vincolo. Anche grazie ai suoi sforzi il tema è riuscito ad arrivare in Parlamento, dove Graziano Del Rio, oggi sottosegretario alla Presidenza del consiglio e allora ministro degli Affari regionali con delega allo Sport, si era preso l’impegno di favorire una trattativa con i presidenti delle società. Il dialogo non sarà semplice, ma Tommasi è ottimista: “Questa norma in troppi casi determina l’abbandono dell’attività sportiva e questo non lo vogliamo noi e non lo vogliono le società. È normale che si debba trovare una soluzione che tenga conto delle esigenze di tutti. Vogliamo sederci intorno a un tavolo per rivendicare i nostri diritti senza intaccare la sostenibilità del sistema”. Se fino a questo momento è stato difficile arrivare a un accordo è proprio perché il vincolo sportivo viene considerato dalle società una risorsa necessaria alla loro sopravvivenza. 

Per Agostino Malavisi, presidente della Polisportiva Cimiano, società amatoriale milanese, la soluzione sarebbe quella di alzare i premi di preparazione, quelle somme che la società che si appresta a prelevare il cartellino di un ragazzo è tenuta a pagare al club che lo ha cresciuto. “Siamo disponibili a rivedere le regole - dice - ma non se ne può fare solo una questione ideologica, le società hanno bisogno di risorse per andare avanti. Noi ci occupiamo della preparazione di giovani calciatori, senza il vincolo non avremmo nessuna tutela e saremmo destinati a farci mangiare dalle società più grandi”. Attualmente se un piccolo calciatore viene notato da una società importante questa deve pagare una somma prestabilita per prelevarlo. Per Malavisi se si alzassero i premi, si potrebbe arrivare all’abolizione della norma incriminata. 
Ma per Tommasi è scorretto farne una questione solamente economica: “I premi di preparazione esistono già, eppure il vincolo continua ad essere un problema. Alzarli non è la soluzione, è solo una risposta monetaria a un problema più complesso”. Oltrettutto, con una soglia d’età così alta,  il vincolo colpisce soprattutto chi non ha più la prospettiva di andare a giocare in una grande società. “Bisogna equiparare i dilettanti ai professionisti e prevedere dei contratti anche nelle serie minori”, insiste Tommasi. “Senza una regolamentazione del genere con l’abolizione delle norme attuali si arriverebbe all’assurdo: la società investe con importanti rimborsi spese e poi si vedrebbe abbandonata dal giocatore senza avere nulla in cambio”. 
Le difficoltà aumentano nel calcio femminile, come racconta Irene Severino, tesserata fin dall’età di quattordici anni con la stessa società e arrivata ora al punto di dover smettere di giocare. “Ho indossato la stessa maglia per sette anni, siamo arrivate in serie A e con la mia squadra mi sono meritata anche la maglia della nazionale Under 17, poi la mia società non poteva più permettersi l’iscrizione al campionato e così siamo state retrocesse in serie C. Volevo andarmene, meritavo di giocare ad altri livelli, ma non mi hanno lasciato andare. Per qualche anno ho continuato, ma poi non avevo più nessuno stimolo e quindi mi sono ritirata”. 

Le donne non sono mai considerate delle professioniste, anche nelle serie maggiori, e quindi per loro il problema del vincolo è ancora più sentito. “Il calcio in rosa - spiega Tommasi - soffre come numeri e non si può permettere di lasciare per strada nemmeno un’atleta”. Dopo essere venuta a conoscenza della storia di Mauriello, anche Irene ha deciso di portare negli spogliatoi delle squadre femminili la sua testimonianza e lo ha fatto grazie al sostegno di Katia Serra, Responsabile Aic per il calcio femminile, e Antonio Trovato, Responsabile Aic per la Campania. “Ci sono stati periodi in cui mi sono sentita sola. Far capire quello che si prova è difficile e parlare ogni volta della stessa storia mi logora dentro, ma portare avanti questa battaglia è importante. Contrastare il vincolo significa lottare per salvaguardare l’etica umana, mi sono accorta che condividendo la mia esperienza sono riuscita ad arrivare alla coscienza delle persone. Credo nella libertà di scelta e nel rispetto, perché ci possiamo divertire anche senza soldi”.

Un calcio al business di MASSIMO MAZZITELLI

Vogliamo riformare il calcio? Cominciamo allora a "liberare" i calciatori. Cominciamo a togliere business, mercanti (improbabili procuratori) e dirigenti affaristi che gravitano intorno alle scuole calcio e ai settori giovanili di tutti i livelli. Eliminiamo il vincolo dilettantistico che imprigiona un giovane calciatore dilettante sino ai 25 anni con una società facendo di ragazzini dai 14 ai 16 anni assegni circolari per procuratori. Proviamo a rimettere al centro del campo lo sport, il divertimento, i sogni di un ragazzo, la gioia e l'orgoglio di aver contribuito alla crescita di un campione. O la voglia di giocare ancora a 23 o 24 anni solo per passione.  Basta andare a vedere una qualsiasi partita Allievi in giro per l'Italia per trovare a bordo campo una miriade di personaggi: c'erano anche una volta, ma erano i "mitici" osservatori, quelli che scrivevano, litigavano tra di loro sul destro di un ragazzo e facevano a gara ad individuare il vero talento. Poi partiva la telefonata alla società importante amica. Il compenso? Poter dire: "Quello l'ho scoperto io" e poter parlare nel paese o nel quartiere a nome di club come Juve, Inter, Roma... Il loro posto è stato preso da "procuratori" dalla promessa facile. Basta un dribbling fatto bene per aprire il vaso dei sogni di un ragazzo di 14 anni: arrivano promesse di sicuri approdi alle grandi squadre e grandi ingaggi che spesso restano appunto solo promesse.  Ma interessa poco che quel ragazzo possa diventare un campione, perché è già un business che può valere decine di migliaia di euro. Lo chiamano premio di formazione ed il principio è anche giusto: riconoscere alla società che ha formato il calcisticamente il ragazzo un premio per il lavoro svolto. La stortura è che ora è diventato un business e per l'Italia girano eserciti di ragazzini che non avranno mai la minima possibilità di giocare tra i professionisti. A interessare sono quei trentamila euro di premio di formazione, non capire o accompagnare quel ragazzo nella crescita. E per non sbagliare o rischiare di lasciarsi scappare l'eventuale fenomeno scattano contratti o vincoli che rischiano di travolgere la passione. Per decenni il calcio italiano è stato all'avanguardia nel mondo e i nostri campioni arrivavano da oratori o da piccole squadre dove l'allenatore e il presidente tutti i giorni insegnavano calcio solo per passione e non per fare business sulla pelle di ragazzi appassionati. E' proprio anacronistico ritornare a quel mondo? Non possiamo lasciare il business fuori dai settori giovanili e dalle società dilettantistiche? Siamo sicuri che il sistema non crollerà perché il motore più forte e pulito nello sport rimane sempre la passione.

 

 

 

 


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  Scritto da Redazione Emiliagol il 04/04/2014
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